Vi siete mai fermati ad osservare il bordo delle onde?
Schiumoso, spesso, impalpabile, oscillatorio, ipnotico.
Sembra il bordo delle nuvole, ed è seducente la sua consistenza visibilmente composta di acqua e aria mentre si espande sulla terra, penetrandola solo un po’, ritirandosi poi nel suo elemento.
Così s’incontrano tutte le cose (e gli individui): sul loro bordo. Sovrapponendosi si mischiano un po’, lasciano la propria traccia sulla superficie dell’altra, e chissà poi cosa succede in profondità.
Mi sembra che la storia di Walter Mitty e del Nao di Brown, accostati così come mi è capitato d’incontrarli, uno dopo l’altro (o uno sopra l’altro) abbiamo molto da dirsi.
Mitty è un personaggio nato dalla penna di James Thurber nel 1939, diventato poi film nel 1947 (Sogni proibiti di Norman Z. McLeod), e riproposto da Ben Stiller oggi.
Il Nao di Brown è scritto e illustrato da Glyn Dillon, tornato alle graphic novel dopo una lunga pausa dalla produzione editoriale.
Walter e Nao sono due personaggi che subiscono la propria immaginazione.
Il primo s’imbambola in fantasie ad occhi aperti dove sogna di essere un eroe che compie azioni epiche di fronte ad un pubblico esultante.
La seconda ha allucinazioni ossessivo compulsive in cui si vede aggredire violentemente coloro che gli stanno intorno.
Uno si rifugia nella fantasia, l’altra cerca disperatamente di fuggirne.
Walter Mitty, sognatore romantico
Walter Mitty, oserei dire, è uno di noi.
Chi non si è mai perso in fantasie romantico avventurose dove ci si trasforma in protagonisti di storie da film?
Peccato che la sua vita risenta più o meno pesantemente di questa attitudine.
Walter interrompe il suo contatto con il presente nei momenti meno opportuni collezionando brutte figure con amici, colleghi e donna amata, guadagnandosi la reputazione di “macchina dei sogni“, appellativo non certo riferito alla sua carica erotica.
Tutto questo finché una circostanza e un paio d’occhi cerbiattini non lo spingono a intraprendere un viaggio pazzesco incominciando finalmente a vivere fuori dai sogni (e ci credo, prova tu a imbambolarti mentre scappi dall’eruzione di un vulcano!).
Nao Brown, preda dell’immaginazione
Nao Brown è una giovane artista londinese.
Come se già non fosse abbastanza difficile cercare di sfondare nel mondo dell’arte ai giorni d’oggi, Nao soffre di allucinazioni.
Ogni tanto la sua testa si riempie d’immagini in cui si vede gettare passanti sotto la metro o pugnalare sul collo ignari adolescenti con semplici bic.
Lo yoga e il pensiero di chi le vuole bene la aiutano a mitigare la sua mente fuori controllo, ma spesso finisce nascosta nei ripostigli quando le sue tecniche non sono abbastanza efficaci.
La bellezza di questo personaggio è che, nonostante sia terrorizzata dalla violenza che nasce dalla sua mente, non smette mai di lottare contro questa sua condizione di preda dell’immaginazione.
Continua a sperare, prima o poi, di avere una vita normale.
Immaginare: fuga o prigione?
La storia di Walter Mitty è una favola, un racconto leggero.
Esalta e gioca con la condizione del sogno che ci aiuta a vivere, ma che può anche intrappolarci in una dimensione irreale, se abusata.
Quello che ci mostra Dillon, invece, non ha niente di leggero. L’immaginario di Nao è spaventoso, trasforma le emozioni più cruente in vere visioni le quali sono così reali da sembrare vere.
Vivere in maniera così vivida emozioni come la paura, l’angoscia, il senso di smarrimento o d’inadeguatezza spezzerebbe chiunque.
Ti verrebbe da raccoglierla tra le mani, la piccola Nao, e sussurrarle che le categorie del buono e del cattivo sono una semplificazione fuorviante, che siamo tutti fatti di buio e di luce, e che è tutto a posto: è una questione di scelta.
La soluzione: Riempire di vita l’immaginazione
Entrambi i personaggi, alla fine e in qualche modo, si affrancheranno dalla loro dipendenza dalla mente.
Lo faranno colmando di realtà quel gap che avevano creato distaccandosi dal mondo.
Infatti il problema non è la fantasia, e neanche la realtà. Il problema sta nel bordo delle onde, quando rimane impermeabile all’incontro delle superfici che si accarezzano modificando vicendevolmente le proprie composizioni e i propri confini.
Se si rifiuta il contatto si richiama la solitudine. E la solitudine genera distanza, la distanza dolore, e il dolore la fuga.
C’è un grande potere nell’accettazione del contatto. Brucia a volte, ma è sempre salvifico.