quando c'era marnie studio ghibli recensione

Quando c’era Marnie – una favola per guarire dalla solitudine

Quando c’era Marnie c’era famiglia, c’era casa.

Quando c’era Marnie c’era una casa su un acquitrino e la marea regolava il ritmo e gli incontri, le poesie del cielo, i giochi serali, i sogni e gli incubi.
Siamo tutti atterriti dalla solitudine. I bambini sono giustamente terrorizzati dalla perdita dell’amore dei genitori, loro unica fonte di sopravvivenza e di orientamento nel mondo. Da adulti impariamo a tenere questa paura sotto controllo, ma non la dimentichiamo mai.
Se ci sentiamo rifiutati, o la prova dei sentimenti degli altri non è abbastanza, siamo noi ad arrancare. Sentirsi mancanti si confonde con il mancare… quindi, cosa ci manca per essere amati? La bellezza? La simpatia? La bravura? Come appariamo al mondo se nessuno ci ama e ci protegge? Non appariamo, o vorremmo non apparire. Ma la materia di cui siamo fatti traspare, “sembra proprio ciò che è“.

Quando c’era Marnie, Anna-chan era felice. Non aveva paura del rifiuto.
Anna-chan sapeva che Marnie non era un essere reale, ma accettava il gioco perché lei, della realtà, non voleva saperne niente. Il fondamento del mondo e ciò che lo regolava l’aveva ferita profondamente; perché, quindi, interessarsene ancora? E allora sgattaiolava a piedi nudi, di notte, attraverso le pozzanghere di un acquitrino che poco più tardi sarebbe diventato un lago dove far scivolare via le proprie sofferenze in compagnia di un fantasma che veniva da lontano, da se stessa, dal tempo, dalle memorie di cui ognuno di noi è composto.

Da “Marnie dei ricordi”, traduzione letteraria del titolo del film, Anna-chan viene curata e “rimessa al mondo”. Attraverso le forze dell’acqua e della notte, simboli del mondo emozionale e dell’inconscio profondo, la piccola ospite della palude risana il proprio strappo con quella realtà che aveva rinnegato dopo essersi sentita rifiutata. I viaggi notturni impastati di sogno, avventura, memoria, contenuti dell’inconscio, l’aiutano a ritrovare la strada per comprendere la sua storia, l’amore di cui era stata investita, le paure degli altri oltre alle sue. Grazie alla comprensione del rimosso riesce infine a esercitare il perdono, che è uno degli strumenti più forti per la “ri-unione” con le parti perse di se stessi e con gli altri tornando a sorridere, e a respirare.

Non si può dubitare sulla bellezza dell’ultimo film dello Studio Ghibli. La storia ci mostra una guarigione del corpo e dell’anima che riguarda tutti noi, nessuno escluso. Impossibile non trovare almeno una minuscola parte di sé che non risuoni con il dramma esistenziale della piccola protagonista, altrettanto difficile resistere alla commozione, quando la vedi tornare a sorridere, e a vivere.

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