L’occhio, l’obiettivo, la luce, il corpo.
Se ci pensate, è tutta qui la fotografia, tra ‘ste 4 cose. E’ incredibilmente semplice e dannatamente complicato, così come scrivere questo articolo per me, oggi.
Jen Davis, classe ‘78, è una fotografa newyorkese. Già che dici newyorkese sembra tutto una figata. Compone una serie di autoritratti raccolti in 11 anni di vita che si chiama, appunto, “Self-portraits”, e scorrendo gli scatti capisci che quello che definisci come “figata” è tutt’altro.
Il corpo. Il suo corpo. Quello dell’occhio, per intenderci. Cosa succede quando chi è occhio che guarda è anche soggetto guardato? Un po’ come quando ci si sogna dentro un sogno, per l’appunto, e quelli che siamo dentro al sogno non siamo propriamente noi, visti dal di dentro e dal di fuori, agenti e agiti, implosi ed esplosi. Se l’obiettivo e la luce diventano l’inconscio, e l’occhio diventa il soggetto, l’autoritratto diventa una specie di psicoterapia. Riuscite a seguirmi? Scusate, divago.
L’occhio. Non è mica tanto facile da guardare, il corpo di Jen Davis. Se penso a me, che per 4 chili in più mi rimiro allo specchio con vero biasimo, come credo che si sentisse Jen, nel suo corpo? Non tanto bene, no. E quando il tuo corpo non ti va bene tendi a rimuoverlo, a sentirti invisibile… a sperarti invisibile. Ma invisibile non puoi essere, e allora devi fare qualcosa. E Jen l’ha fatta: si è messa davanti all’obiettivo, sotto la luce. L’ha fatto da sola, e con altri corpi, per rendersi ancora più evidente, più anormale, impossibile da ignorare.
L’obiettivo. Praticare il mestiere della fotografia può aiutarti nella pratica dell’invisibilità. Il fotografo s’identifica con il suo sguardo, sparisce dietro l’obiettivo pur potendo manipolare la realtà: migliorarla, peggiorarla, renderla più emozionante o spersonalizzarla.
E’ un potere divino, in qualche modo, non siete d’accordo con me? Illuminare ogni cosa, deciderne il taglio, la forma. Con la luce si può fare tutto. E rimanere nell’ombra, protetti, e stare a guardare la meraviglia del mondo che contribuisci a creare.
Mi piace l’onestà, nell’arte, e questo lavoro mi sembra crudelmente onesto. Può essere paragonato ad un’opera letteraria di grande esposizione umana come il De Profundis di Wilde, o ad un film di estrema crudezza come“Nick’s Movie” di Wim Wenders. Jen Davis non suggerisce alcun messaggio moralizzante al suo pubblico, cerca esclusivamente di riconoscersi. A noi rimane solo seguire il suo percorso di auto-svelamento, di autoriflessione.
C’è dolore in queste foto, c’è amore. Una cura e un’attenzione per se stessi che a volte ha bisogno dell’uso del bisturi ma è indispensabile alla propria auto-guarigione, che in questo caso è una guarigione dello sguardo verso se stessi.
L’occhio, l’obiettivo, la luce, il corpo. E’ tutta qui la fotografia. Semplice e dannatamente complicata. Esattamente come scrivere questo articolo.
____________________________________
P.s.: Grazie a Alessio Duranti per avermi regalato la chiave di riflessione attorno alla quale ruota questo articolo, anche se l’autoritratto gli fa schifo.
About Post Author
Ti potrebbero interessare anche
-
I sogni segreti di Walter Mitty e Il Nao di Brown: recensione incrociata
-
Non si può morire ballando, Lavatrici rotte e Girasoli – Intervista con Andrea Castoldi
-
A sangue freddo
-
Quando c’era Marnie – una favola per guarire dalla solitudine
-
A Little Chaos di Alan Rickman – con la Winslet si vince facile